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Archivio mensile:febbraio 2015

La Luce del sole per un uomo chiaro di luna

La incredibile storia di Stefan Wever magistralmente raccontata da Tom Dinard – apparsa su The Post Game  il 17 Gennaio 2012

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                                                                            Stefan Wever

Non morirai domani.                                             

Ripeti questo a te stesso mentre il tuo corpo appassito saluta il corteo di persone che, lungo il lucido pavimento bianco, arriva al tuo capezzale per dirti addio.

Il tuo cervello ha avuto una fuoriuscita di sangue per due settimane, ma sei ancora forte abbastanza per avere la convinzione del contrario. Ti stanno salutando  dannazione, ci giureresti,e tu dici ad alta voce che è bello che tanti di loro abbiano preso il time out in un  loro giorno di lavoro per venire a farlo.

Tuo padre si strofina gli occhi. Ti ha raggiunto presto, con il volo dalla Germania . Tua madre, che vive in fondo alla strada ed è stata con te lungo la corsa verso l’ospedale, veglia su di te attraverso le pareti di vetro che ti separano da innumerevoli macchine e infermieri  vestiti di bianco.

Tua figlia Megan, 16 anni, da non credere, entra ed esce dalla porta. Lei non sembra fermarsi mai,  sempre in movimento, avendo cura di tutto, raccogliendo le informazioni più recenti. E’ il “direttore” di questo concerto. L’intervento a cuore aperto, i due periodi con il cancro, ora questo. Ha visto come te, molti corridoi freddi e sterili. Tua sorella gemella, Kirsten, fa da filtro con tutti gli altri. Il resto dei tuoi parenti venuti da Boston, dove eri cresciuto, i tuoi compagni del diamante, i tuoi lanciatori, lo sponsor  di AA.

Volti, a volte nitidi, a volte sfuocati, a seconda delle ore. Volti che hanno modellato in un sorriso con facilità in passato – solo uno scherzo inopportuno via –  non sorridono  oggi. Sei sicuro che loro stiano pensando non sia permesso. Normalmente potresti dire che si stanno sbagliando. Ma risparmierai l’energia per domani.

Oggi ti hanno sottoposto a due esami per il cuore che hanno mostrato come l’infezione della valvola artificiale, che ti hanno messo tre anni fa, ha causato il gonfiore. L’ictus minore che ti ha steso su questo letto due settimane fa ti ha reso incapace di muoverti per alcuni giorni.

I medici hanno dovuto attendere che finisse il sanguinamento  prima che fosse possibile il pompaggio di medicinali che ti riportasse nelle condizioni per poter sostituire la valvola danneggiata. Megan ti ha  raccontato questo, e tu hai annuito ad ogni parola, eppure eccoti qui: un vecchio malfermo che vaga barcollando nel reparto di terapia intensiva con un deambulatore.

 Non è una novità, questo mantra: cadere sette volte, rialzarsi otto. E il coro che hai scritto, uno dei tuoi preferiti per cantare quando lascerai questo ospedale, ti siederai davanti al pianoforte e canterai più forte che puoi..

I visitatori continuano la marcia davanti a te. Per loro sei il classico “hard-luck pitcher” (il pitcher perseguitato dalla malasorte), il ragazzo che ha già lavorato nell’inning supplementare della vita, concedendo un punto o due, ma facendo tutto il possibile per mantenere se stesso e la sua squadra in partita.

 Non hai l’energia per raccontare che non cederai nemmeno questa volta, che è rimasto ancora un sacco di forza nel tuo braccio destro di 52 anni.

Così farai quello che fai sempre. Ti risolleverai..

Ti alzi sui cuscini e guardi fuori dalla finestra della tua camera. Non c’è vista sui tetti vittoriani o sulle dolci colline con le strade che portano al Golden Gate per darti delle belle immagini. Non c’è un raggio di sole in  vista. Questo ti consola insieme alle gentili parole di un’infermiera o la saggezza di una figlia che è diventata una donna davanti a te, forse in questa stessa stanza, e sorride, sapendo che ci sono due cose di cui si può essere ancora certi:

La nebbia non si solleva mai prima di mezzogiorno a S. Francisco, nel mese di maggio.

E tu, Stefan Matteo Wever, non morirai domani.

                                                                          ***************

Spruzzi di champagne erranti, puntini bianchi di schiuma di birra, spessi  pennacchi di fumo di sigaro e una massa di corpi, ancora nelle maglie intrise di sudore, mescolati, rotolanti sulla moquette bagnata. I compagni di squadra urlano, in posa per le foto con l’indice alzato,

Avrebbe potuto essere il classico cliché del baseball, ma quella notte, 11 Settembre 1982, fu il loro modo di vivere il baseball.

I Sounds di Nashville avevano appena battuto i Jacksonville Suns per il titolo della Southern League, e la piccola Club House al Green Stadium aveva strappato gli ormeggi dalla doppia-A, fluttuando attraverso la densa aria del Tennessee verso il cielo. Stefan sorride, guardando la sua squadra dopo la prima vittoria vera, in piedi nel mezzo della stanza, con  i suoi 2 metri e 07 e 108 kg, era l’epicentro dei festeggiamenti.

 Era la squadra vincente e lui l’MVP della Lega. Sedici vittorie in regular season e due, le più importanti, in questi play off. Una media ERA di 2,69. Più di 200 strikeouts. E meglio di tutto l’idea che tutto questo  poteva servire a portarlo nel Bronx da George Steinbrenner.

Era stato paziente, senza mai riposare e fermarsi a pensare cosa  provi un lanciatore a salire sul monte davanti a 55.000 spettatori, con il rombo del treno n. 4 che passa all’ombra del grande Palazzo di Giustizia e le luci – così tante luci – che rimbalzavano sul bianco della facciata. Sapeva che nel 1982 gli Yankees stavano collezionando una striscia patetica e  che erano a corto di buoni Pitcher, ma sapeva anche che la sua fastball a 95 mph, la sua forkball che si tuffava verso il basso, il suo miglior changeup, la buona forma per tutta l’estate e la sua crescente maturità gli avevano fatto rendere al meglio il suo giovane braccio.

Eppure questi erano i New York Yankees, e Stefan era ancora in Doppio-A. Il che significava che doveva trascinare le valigie, la sua borsa da baseball e i postumi di una sbornia da Major League all’aeroporto più tardi quella mattina, prendere un volo di ritorno a S.Francisco, finire il suo Master in inglese a Berkley durante l’inverno e incontrare nuovamente i suoi compagni, il prossimo Marzo a Fort Landerdale per gli Spring Training, dove sperava di rivendicare il posto n. 1 per la rotazione in Triplo-A a Colombo, prima ancora che il povero catcher sentisse il bruciore dei suoi lanci di riscaldamento.

Un altro anno buono per tentare la scalata a un grande Club….no….al più grande Club.

 Stefan ha solo ventiquattro anni, ma  già vede il suo futuro. Guardandolo sul monte, i  tifosi e i battitori che affronta potrebbero pensare che tutto sia stato facile per lui, ma i suoi maestosi numeri ottenuti alla Lowel High School non avevano ispirato molto interesse negli scouts dei College. Nei loro rapporti si leggeva che aveva lanciato contro un gruppo di  perdenti di S. Francisco. Così la sua magistrale stagione Senior con 2 shutout contro Lincoln gli hanno permesso di arrivare solo fino a UC Santa Barbara: un piccolo punto sulla mappa della Divisione I, conosciuta più per le gare di surf e i campionati di pallamano.

Ma dopo la caduta ti rialzi.

Ha lavorato nelle aule scolastiche cercando di raggiungere la quota della votazione A, di tenere il passo con la folla di MAs e di dottorati di ricerca che popolavano i loro alberi genealogici da generazioni. Ha  lanciato abbastanza bene contro i ragazzi grandi nel programma  “Gaucho” (Accademia per giovani giocatori che vogliono salire di grado – Santa Barbara, California) cercando di scavalcare i suoi compagni di squadra, ma il record scolastico di 17 sconfitte pesava su di lui.

Nel suo anno mjnor era positivamente osservato dagli scout, mentre i problemi, inizialmente minori, del gomito con  la paura che un giorno sarebbero diventati grandi lo hanno tenuto fuori dal primo turno di scelte, e intanto gli Yankees si rimettevano in sesto.

Cresciuto a Boston fino all’età di dodici anni Stefan non avrebbe mai immaginato di provare qualcosa al di fuori di un odio provocatorio contro tutto ciò che ricordava i “gessati”.

Ogni anno la sofferenza comune tra i suoi fratelli Red Sox era un diritto di nascita. Giocare per gli Yankees? Ha! …Questo non sarebbe mai accaduto.

 Ma nel 1979 i “Vili” Yankees offrirono a Stefan un bonus per la firma di 15.000 $. Cedette  per 16.000 $  e poco tempo dopo Stefan debuttava come Rookie in uno stadio nella parte settentrionale di New York, frazione di Oneonta; l’inizio della salita di un sogno.

 Le frizzanti notti primaverili di Oneonta si dissolvevano in quelle afose d’estate nella high-A di Fort Lauderdale.

 Nel 1981, Stefan aveva affrontato  a Nashville diversi  formazioni ottenendo  una ERA di 2,00 e 80 strikeouts in 81 innings.

I compagni di squadra erano di diversa provenienza  sociale: figli di agricoltori dell’Iowa, stretti osservanti della Bibbia, superstiti del Ghetto e poveri domenicani. Stefan era della sponda sinistra dei Liberal, spesso la voce solitaria che predicava nel deserto durante le lunghe trasferte in Bus, con argomenti tipo l’aborto, l’omosessualità e la pena di morte. Ha imparato a discuterne civilmente…. Ha imparato anche che il successo nella sfera professionistica, come nella vita, si misura da come ci si alza dopo essere caduti. Esempi e storie simili  erano accadute anche vicino a lui. Todd Demeter, seconda scelta degli Yankees – nell’anno in cui Stef era stato scelto nel draft  aveva ottenuto più di duecentomila dollari, un premio record a quel tempo. (Si diceva che  quattro giocatori della franchigia Kentucky Friend Chicken facessero  parte della transazione). Era un grande outfielder – alto 1,95 per 91 Kg.  che ci si aspettava diventasse ancora più grande e aveva colpito svettanti fuoricampo per  gli Yankees vincitori delle World Series per anni.

 Il padredi Todd, Don, giocò11grandistagioni nei campionati maggiori del 1950e ’60. Toddaveva ilpedigreeela potenza nella mano destra. Ma, comelafermezza dellasua fede cristianacresceva, così facevail suo numero  totale di strike out subiti.

Sarebbe andato senza fretta al piatto con due corridori in base e due fuori e la squadra in svantaggio di un punto, pop out in seconda base per tornare indietro al dugout  in quello che sembrava uno stato di beata serena trance.

Dopo sette stagioni lui era fuori dal circuito organizzato, non essendo mai andato oltre la  Doppia-A.

 Poi ci fu il ragazzo magro di 18 anni, proveniente dall’Indiana  che fu scelto nel 19° turno  del Draft del 1979.

 Stefan ed il resto della squadra sarebbero rabbrividiti guardando lo sventurato Hoosier  flagellare la sua strada attraverso la pratica di battuta in Oneonta, riuscendo a malapena a girare la mazza sulle fastballs nella rookie-league. Ma qualcosa in questo ragazzo era diverso. Un motore bruciava ardente all’interno, incapace di rallentare. Donnie Mattingly era sicuro che sarebbe stato una grande star del campionato maggiore, e le sue sessioni estenuanti nelle gabbie di battuta e dietro ai campi da baseball  ha fatto in modo che avesse ragione.

 E Stefan? Quando arrivò a Nashville, era ancora un tipico lanciatore grezzo e selvaggio  capace di mandare in base 6  battitori e di eliminarne 12.

Ha ottenuto a causa della scarsa concorrenza – tutte le cose che servivano e nessuna idea di come usarle. Quando veniva colpito duramente, doveva cercare ogni scusa. Un monte scivoloso a causa della pioggia della notte precedente. Un mal di collo perché il suo compagno di stanza amava alzare il condizionatore d’aria. Una tormentosa incapacità a far presa sulla palla dovuta al sudore causato dall’umidità. Niente di tutto questo importava a  Hoyt Wilhelm, suo pitching coach in doppio-A , un sessantenne membro della Hall of Fame che ha attraversato 21 stagioni di campionati maggiori con niente di più che una knuckleball e parecchio fegato.

 Non ci volle molto a Hoyt, per insegnare a Stefan tutto quello che aveva bisogno di sapere. Il Coach non si preoccupava dei punti di pressione delle dita sulle cuciture sulle linee di giunzione della palla, o la pronazione o la posizione ottimale della gamba o la ripetizione delle consegne date. Gli importava di una cosa sola: quello che attraversava la mente di un lanciatore  mentre aveva la palla in mano. “Solo impugnarla  e lanciarla”. Diceva Hoyt e la franchezza del suo sguardo, la certezza nella cadenza delle parole erano sufficienti  a chiudere la questione  con qualsiasi lanciatore tanto la cosa sembrava semplice.

Tutto quello che Hoyt voleva per il suo ragazzo era combattere, sapere che il talento nel suo braccio era buono abbastanza e la potenza della sua convinzione – la fiducia necessaria per prendere quel braccio e far girare a destra i battitori senza esitazione  e senza paura di fallire – era tutto ciò che serviva.  “Quando un battitore arriva in prima base”, ha detto a Stef più volte, sfoderando un ghigno  da Coopertown (sede della Hall of Fame), “Vuoi che giri a destra, non a sinistra”.

 Stefan aveva ascoltato e adesso i Nashville Sounds erano campioni e il grande lanciatore destro presiedeva una squadra seria che non conosceva fine.

      Era quasi mezzanotte quando il ragazzo della Clubhouse  battè sulla spalla di Stefan indicandogli la porta chiusa dell’ufficio del manager. Johnny Oates sedeva dietro la sua scrivania, e Hoyt, ancora bagnato dallo champagne, accostò la sedia accanto a Stef. I due uomini più anziani avevano, quasi tutti i giorni, uno strano riflesso sulla faccia che assomigliava ad un sorriso di incoraggiamento. Il loro silenzio così cupo faceva capire a Stefan che c’era qualcosa che non andava.

  “Wewe, mi dispiace dover dire che c’è stato un cambio di programma”, disse Johnny. “Non potrai vedere i tuoi amici in aeroporto quando arriverai domani”. Stefan non aveva replicato subito, ma un leggero luccichio negli occhi del manager gli aveva dato una speranza..

“Perché Johnny, cosa è successo?”

“Perché tu atterrerai al JFK sulla strada dello Yankees Stadium”.

Gli uomini si abbracciavano e ridevano e piangevano. Hoyt disse a Stefan che nessuno mai l’aveva meritato di più. Stefan tornò verso gli armadietti in stato confusionale, strinse le mani dei compagni, raccogliendo le sue cose poi aprì la porta che conduceva fuori e andò nell’aria calda del primo mattino, di un sogno, di una vita.

                                                                               ***************

Nel 1964, quando Stefan e Kristen Wever avevano 5 anni, i loro genitori  erano andati a vedere un matinèe di “A Hard Day’s Night”. Mamma Dorothy è stata una pianista, cantante e insegnante di musica da camera. Voleva vedere cos’erano “The Beatles”.

Sulla strada fuori dal teatro, i Wevers  acquistarono i biglietti per tutta la famiglia per lo spettacolo che terminava a tarda notte. “Hai bisogno di sentire questa musica” disse, con una serietà che non aveva mai visto in lei. La settimana dopo Dorothy mostrò a Stefan un accordo  di Do al pianoforte. La settimana successiva un do minore e quella dopo un do7 e così via. Stefan venne agganciato da tutto questo: musica che poteva sentire, ma anche toccare e farla propria; il lavoro e il tempo che sarebbero serviti per padroneggiare quegli 88 tasti, creare innovative progressioni melodiche, testi, strumentazione e la personalità di John, Paul, George e Ringo che immaginava fossero scesi da una navicella spaziale, solo così succede di schiantarsi in una strada di ciottoli di Liverpool dove alcune chitarre erano state lasciate fuori con i rifiuti della notte precedente.

Saltò sul taxi all’uscita dell’aeroporto 18 anni dopo, quasi ridacchiando mentre diceva all’autista : “Yankee Stadium”. Poi una pausa, con adeguata enfasi drammatica “ingresso giocatori”. Gardò fuori dal finestrino un cielo senza nuvole, perfetto per la partita della Domenica pomeriggio, che era già iniziata;  si lasciò cullare, solo per un secondo, dal pensiero di quale meraviglia dovesse essere lo spogliatoio di un grande campionato professionistico. Questa volta lasciò libera la risatina di compiacimento.

La macchina rombava lungo la strada piena di buche. L’unico rumore che arrivò dalla parte anteriore della macchina fu un incoerente abbaiare Brooklynese dall’interfono, ma Stefan si distese  indietro  e ascoltò la colonna sonora della scena  cantata dai “Fab Four” gli avrebbero dato qualche spunto giusto.

Appena “La Casa che Ruth aveva costruito” apparve alla vista,. Paul cantava in quell’istante “Perché mi lasci in piedi qui?”, “fammi conoscere la strada”.

Sorprendente era il modo in cui i fans già lo conoscevano, i suoi piedi avevano appena toccato il marciapiede (che lui non aveva nemmeno notato) e li vide affollarsi intorno, già chiedendogli l’autografo. Stef non poteva firmare perché aveva 8 mesi di indumenti in cinque pezzi di bagaglio, ma li ascoltava, come non poteva?. Sapevano pronunciare il suo nome, sapevano i suoi numeri ottenuti a Nashville. “Vai a prendere il tuo posto ragazzo”, gridavano. Lui rispose che lo avrebbe fatto.

Mentre sul campo del vecchio stadio la partita era giunta al secondo inning, lui camminava attraverso i corridoi bui del seminterrato. La club house vuota si stendeva davanti a lui come un profondo  scrigno di gioielli.. Aveva pensato che il suo sarebbe stato un armadietto in un angolo abbandonato, forse vicino ai servizi igienici, e il suo numero sull’uniforme un 93 o 84 o qualcosa di adatto  per un’aggiunta dopo gli  spring training che lo avrebbe fatto rimanere nel Bronx abbastanza a lungo da lasciare dei graffiti.

 Poi arrivò la “tromba d’aria”: il suo armadietto era tra quelli di Dave Winfield e Goose Gossage, due giocatori che si stavano incamminando verso la Hall of Fame. Aveva, sulla divisa, il n. 25, l’ultima casacca indossata da Tommy John, che era stato un All-Star per tre volte e aveva giocato per quasi 20 anni tra i big.. Si vestì lentamente in silenzio, assaporando la sensazione del tessuto, prima di camminare attraverso il tunnel verso la luce del doug-out. Uscito sul campo vide per la prima volta Sammy Ellis, Pitching coach degli Yankees, che aveva lavorato con Stef  nella “instructional league” alcuni anni prima. Ellis lo presentò al Manager, Clyde King. Trascorse il resto della giornata facendo il tifo per  gli uomini che conosceva solo come volti della TV o figurine del baseball che prendevano vita mentre scendevano i gradini davanti a lui e gli schiaffeggiavano la mano: Winfield, Ken Griffey, Graig Nettles. Gli Yankees batterono i Brewers 9 – 8 in fondo al nono inning.   Winfield e Gossage, quando non erano assediati da giornalisti la cui presenza invadeva lo spazio ristretto di Stefan, erano dei vicini amichevoli,  gli lanciarono delle barrette di Kit-Kat. Ron Guidry, l’asso che dirigeva lo staff, ex vincitore del premio Cy Young, si avvicinò, stese la mano e disse “Benvenuto nei New York Yankees”. Sul volo charter verso Baltimora, quella notte, a Stefan venne consegnato il buono pasto: più di 600 $ per il lungo viaggio che aveva davanti. Guardò i suoi nuovi compagni di squadra estrarre i loro fermasoldi, quasi all’unisono. Avrebbe dovuto disputare un grande campionato per avere anche lui un fermaglio così pieno di soldi, non è vero? Doveva averne anche per comprare vestiti nuovi.

Winfield, soprannominato “Six-foot-six”,  trascorse il volo elencando i migliori negozi “Big & Tall” nelle città della American League.

Arrivarono  in hotel, un lussuoso grattacielo. Stef doveva divedere la stanza con Jay Howell, un rookie  proveniente dal Triplo-A, ma il dirigente accompagnatore della squadra, Bill “Killer” Kane, lo tirò in disparte per dirgli che il catcher di backup della squadra, Barry Foote, stava prendendo una pausa per stare con la moglie malata. Gli sarebbe piaciuto prendere la sua stanza? Perché no.

E – ragazzi – quella stanza era splendida – una suite ornata che si affacciava sul’Inner Harbor. Un telefono dorato appeso al muro del bagno. E i suoi bagagli, che non aveva ancora toccato da quando era arrivato allo Yankee Stadium, quella mattina, lo aspettavano nel corridoio davanti alla stanza. Accese la luce, si tolse le scarpe, si sdraiò e stese le lunghe gambe, sospirando e pensando che poteva fare un pisolino solo per il gusto di farlo – solo per vedere se si sarebbe veramente svegliato nello stesso letto e nello stesso corpo.

Ma si era sparsa la voce, era stata una vera partita di poker, e non importa chi lo avesse invitato: Stef era l’ospite. Servizio in camera, birre e spuntini arrivavano come su un nastro trasportatore, ordinati dai giocatori: Lou Piniela, Bobby Murcer, Oscar Gamble, Willie Randolph, Jerry Mumphrey, Winfield, Gossage, Nettles. Stefan aveva bluffato quando non doveva,  perdendo molti  soldi del primo stipendio del Campionato che non aveva ancora ricevuto e ridendo  durante tutto il tempo.

 Sammy Hellis venne fermato da Stefan il quale  gli assicurò che il suo braccio non si era mai sentito meglio, dimenticando il fatto che aveva lanciato più di 230 innings nella stagione e che aveva lanciato normalmente più o meno 130 lanci a partita. “Non ti preoccupare Stef” gli rispose Sammy “sarai sul monte al più presto”.

Stefan dopo essere stato ripulito al tavolo da gioco, andò a vedere sorgere il sole sopra Baltimora. Non sarebbe stato in grado di dormire per ora, ma non gli importava. Era stata una notte di gioco, era nelle Major League, era il miglior prospetto per i New York Yankees, aveva battuto di nuovo le avversità per arrivare qui, e nulla lo avrebbe ostacolato sul suo cammino. Forse non era vero…. lui lo sapeva.

 Dopo diversi anni che la sua carriera era finita, Stefan  decise di scrivere un libro.

La sua vita era diventata così straordinaria che doveva essere documentata,  perché no? Stefan era sempre stato in grado di scrivere canzoni, trovare le parole giuste, per andare dietro alla musica del pianoforte, le parole gli sarebbero venute fuori nei momenti più strani, in auto, sotto la doccia o poco prima di addormentarsi. Avrebbe potuto scrivere anche questo, non c’era problema.

Ma prima aveva bisogno d’un titolo. Ne ha scelto uno che sembrava dire tutto: “il mio braccio destro”, e cominciò.

 <<Quando mi svegliai il Venerdì 17 Settembre 1982, mi sentivo come un bambino di 8 anni la mattina di Natale. Ero veramente sorpreso quando ho aperto la pagina sportiva del giornale (consegnato, naturalmente, nella mia suite) e ho letto nella lista dei lanciatori di oggi: New York Yankees (Wever 0-0) contro Milwaukee (Caldwell 15-11), ore 19,30.

Ho trascorso la giornata girando per alcuni grandi centri commerciali nel centro di Milwaukee e mi sentivo abbastanza bene con me stesso. Ho comperato alcune cose con i nuovi soldi (denaro per il pasto), cose che non avrei mai preso in considerazione  la settimana prima, come occhiali da sole da 50 $. Ho cercato di non pensare alla partita di quella notte, ma non ho avuto molta fortuna. Dovunque andavo trovavo  oggetti e accessori dei Milwaukee Brewers, e tutto ciò che ho letto raccontava della incredibile bravura offensiva di quella squadra (cosa che avrei scoperto di prima mano poche ore dopo).

Aveva piovuto quasi tutto il giorno a Milwaukee e non eravamo sicuri che si sarebbe giocata la partita, perché le condizioni del tempo erano ancora brutte nel pomeriggio, così i ragazzi stavano facendo piani per tentare di uscire quella sera. Finalmente abbiamo saputo che la partita ci sarebbe stata, anche se era stato cancellato il “batting pratice”.

Tutto ciò voleva dire che avevo più tempo per riposarmi in albergo e pensare all’incontro.

Quando siamo giunti al Milwaukee Country Stadium, ero pronto per iniziare. Ho ricevuto alcune parole di incoraggiamento da parte di alcuni dei ragazzi, mentre altri preferivano lasciarmi ai miei pensieri, o per cortesia o perché non sapevano cosa dire. Gli altri lanciatori sapevano, però, che questa era la più grande notte della mia vita.>>

Stefan ha scritto per tutto un anno, ha descritto il suo arrivo al freddo, nebbioso ballpark e il monte di fango scivoloso che lui avrebbe dovuto scavare con gli spikes per lanciare per  quelli che sperava sarebbero stati tutti i nove innings.

 Mentre scriveva con la penna sulla pagina del notebook è entrato nel bullpen, dove si riscaldò con un tale furore nervoso che si costrinse a fingere di trovarsi di nuovo a Nashville, a fissare il guanto di un catcher doppio-A.

Ha scritto come fece la lenta passeggiata verso la panchina  dove si sedette, inebetito, mentre la parte superiore del Line-Up degli Yankees andava ad incontrare Mike Caldwell.

“Prima che me ne rendessi conto ho sentito il mio nome annunciato come il lanciatore partente per i New York Yankees, mentre i miei compagni di squadra si erano schierati in difesa. Ho camminato verso il monte, lentamente….Questo è successo!

Mise giù la penna, non era ispirato o abbastanza sveglio o abbastanza sicuro di ogni dettaglio; salvo quelli che ancora erano conficcati nel fianco come un coltello seghettato, per continuare.

Ha nascosto il libro su una alta mensola, dopo avere scritto 15.000 parole, immaginando che l’avrebbe ripreso quando  la sua agenda fosse stata vuota  e avrebbe potuto dedicargli le energie e la prospettiva che meritava.

Non ha mai finito il libro. Stefan sarebbe stato uno dei pochi – forse l’unico – lanciatore che stava  per iniziare la sua carriera nella Major league dovendo affrontare due futuri Hall of Famers. Iniziò quando il leadoff di Milwaukee, Paul Molitor, entrò nel box di battuta…

Una ondata bollente di adrenalina lo invase. “Scommetto che posso lanciarne un centinaio stasera”..

Ma Molitor vede una quantità sufficiente di campo per inviare la palla  lungo il lato destro per un singolo con sei rimbalzi..

 “OK, va bene. Nessun problema. Prenderò il battitore successivo.”

No. Il secondo battitore dei Brewers, Robin Yount, scava con gli spikes nella terra bagnata del piatto di casa base e frusta un chiaro doppio verso il centro-destra del campo. Molitor segna il punto e i Brewers passano in vantaggio per 1 a 0.

“Oh, va bene. Nessun shutout. Proviamo con il battitore successivo”.

Cecil Cooper. Stefan gli lancia un buon changeup, ma anche se Coop è ingannato dalla palla più lenta e si muove troppo in anticipo, la mazza cattura ancora la metà inferiore della palla e ne nasce una volata poco profonda verso il centro sinistra del campo. Stef solleva la testa e la gira indietro, sicuro di aver ottenuto il suo primo out, e guarda in silenzio mentre  Mumphrey interrompe la sua corsa all’indietro verso il muro, prima di rendersi conto del suo errore, ripartire, e superare la palla che aveva lasciato cadere e che era atterrata  sul prato fradicio.

 “Scuoti via tutto. Fai quello che Hoyt ti direbbe di fare. “Combatti”. Qui si inizia con un buon lancio”.

Ted Simmons cammina verso il piatto nella notte piovosa. Simmons batte una semplice ground ball che saltella sotto le gambe dello shortstop, Andre Robertson, per un errore che avrebbe dovuto essere il secondo out. Cooper arriva in terza.

Ben Oglivie batte una flies out, ma ci sono ancora i corridori agli angoli con il leader degli HR dell’American League Gorman Thomas che si avvicina a grandi passi verso la casa base con un cipiglio da bar di Rapid City.

Fastball alta, un ball.

Changeup per uno strike.

… poi la fitta….

E’ alla spalla destra. Non è uno schiocco e non è una bruciatura. E’ più un piccolo strappo, gli basta per capire che qualcosa non va. Non fa male, ma c’è. Non sta andando via.

Stefan si ferma per un secondo, passeggia nella parte posteriore del monte e si china a raccogliere la borsa della resina.

 “Per l’inferno, in nessun modo voglio che il manager venga sul monte durante il mio debutto nelle Major League: in nessun modo mi devono considerare un cuore tenero, un piagnone che possono ferire. Sarei già spacciato se Hoyt non mi avesse temprato prima.

Si concentra sul catcher, Rick Cerone.

Due lanci più tardi, Thomas colpisce la palla oltre la recinzione.

“Dannazione. Questi tipi non si fermano”.

Con il braccio appeso come linguine stracotte, Stefan se la cava in qualche modo con i successivi due battitori, ma esce dal primo inning con la sua squadra che perde 5-0

Nella parte superiore del secondo Piniella  colpisce una bella palla nella parte sinistra del campo che potrebbe diventare un doppio, ma Oglivie si tuffa sull’erba fradicia e si rialza con la palla nel guanto. Caldwell, quella  testa di cazzo, esce indenne dall’inning, provocando una reazione di Piniella nel dougout. Piniella passeggia sue giù lungo la passerella di cemento di fronte alla panchina, mentre abbaia a se stesso su come una femminuccia  buona a nulla come Caldwell non avrebbe dovuto cavarsela. Si ferma davanti a Stefan, il quale sta fissando nel vuoto perso nella sua nebbia. Piniella punta Stefan e dice rivolto alla squadra.

“Vedete questo ragazzo? Sta facendo il suo dannato debutto nella Major League, e voi ragazzi non potete fare un gioco solo per lui?” dice Piniella. “L’altra squadra fa quei giochi, ecco perché loro stanno andando da qualche parte, mentre noi non stiamo facendo un cazzo! Nessuno gli risponde, ma Stefan è strappato via dalla contemplazione e riportato indietro alla fredda e dura panca, all’acqua raccolta sulla terra della linea di prima base e all’inaspettata  benevolenza di un compagno di squadra che conosce a malapena. Accenna ad un ringraziamento a Piniella e risale le scale del doug out.

 Il resto è un misto crescente di gocce di pioggia che cadono e di crollo delle speranze. Tira tre lanci pazzi. Viene colpito da otto battute valide. Concede 3 basi balls. Due volte ha la possibilità di doppi giochi, e due volte il seconda base Randolph, non riesce a fare il tiro in prima per chiuderli.

Con due fuori  nel terzo inning e gli Yankees  sotto per 7 a 0, King  si avvicina verso il monte, e Stefan sa perché. Clyde allunga la mano e Stefan gli passa la palla.

“Non è stato un cattivo lavoro”, gli spiega. “Non è stata tutta colpa tua”.

Clyde gli da una pacca sulla schiena e Stefan esce dal campo. Mentre la pioggia continua, le luci dello stadio sembrano oscurarsi.

Ed è finita. Proprio così.

Stefan Wever amava parlare di avversità. Questa era la lezione che ha dato ai lanciatori della Università “High Redwood School” quando ha debuttato come allenatore  nel 2009. In quel bellissimo giorno di marzo, con l’alberata vetta del monte Tamalpais incorniciata dal blu del cielo di Marin County, ha raccontato, con il calore del sole primaverile, ai suoi ragazzi rapiti sulle gradinate in alluminio, parlando degli eventi che avevano cospirato per riunirli tutti lì.

Raccontò della sua stagione in Doppio-A nel 1982 e di quanto non era riuscito a fare; le sei partite perse;  i nove HR subiti; le oltre ottanta basi balls regalate ai battitori; i sette lanci pazzi. Poi ha raccontato loro quello che aveva fatto di buono: le 18 vittorie, i più di duecento strikeouts; il titolo della Southern League, la chiamata alle “armi” per gli Yankees.

Ha lasciato la storia lì, dando ai giovani atleti una parabola costruttiva di come l’ottimismo e la capacità di rimbalzare dai punti bassi della vita identifica il carattere e definisce cosa significa essere un vincitore. “Non è importante come si cade”, ha detto loro, “E’ importante come ci si rialza”.

Stefan Wever non aveva detto tutto.

 Lui non aveva raccontato quale furono le conseguenze di quella notte a Milwaukee, quando la fitta alla spalla destra si era rivelata essere una lacerazione del labbro del tendine e della cuffia dei rotatori, non ha raccontato dei due anni di riabilitazione conservativa  voluto dagli Yankees, con la sua fastball passata da 95mph, lanciata  per  nove innings, a 85 mph  lanciate al massimo per cinque innings.

Non raccontò come arrivò agli Spring Training nel 1983  dove  il nuovo manager degli Yankees, Billy Martin, lo prese in disparte e gli disse: “Stef, tu sarai il mio n. 5 della rotazione dei partenti”. Quell’anno Stefan lanciò solo sette partite in triplo-A, con una ERA di 9,78.

Non ha raccontato loro della spalla che non sembrava migliorare nemmeno dopo gli allenamenti rigorosi nella offseason, e che lo limitarono a sette partite in singolo A nel 1984. Poi è arrivata la chirurgia, due anni troppo in ritardo, e le cinque partite, per tentare di recuperare, giocate ad Albany-Colonie, in Doppio-A, lanciando attraverso il dolore fino alla decisione finale senza appello, prendere il telefono una mattina e comporre un numero familiare di San Francisco.

“Mamma”, disse Stefan, cercando di allontanare  le lacrime: “Sto tornando a casa”.

I Redwood Giants non hanno bisogno di sentire i dettagli dei successivi 23 anni – 23 anni che avevano portato il loro nuovo allenatore a questo momento motivazionale mentre osservava l’erba del campo ancora umida di rugiada, ma loro avrebbero potuto immaginarlo con mezz’ora gratis su Google.

Stefan aveva vagato per le strade collinari della sua città natale in cerca di una nuova carriera e una nuova passione, ma ha spesso finito per sfuggire alla nebbia del suo sogno infranto trovando uno sgabello di un bar invece di usare la sua laurea d’Inglese di Berkeley.

Incontrò una donna gentile e bellissima di nome Melinda e la sposò nel 1988. Tre anni dopo, lui e un amico trasformarono la loro comune ammirazione per il confort di alcol e luoghi oscuri in un business.  Si chiamò la “Taverna Ferro di Cavallo” sulla Chestnut Street, nel quartiere della Marina, una fenice yuppie che spuntava dalle ceneri e macerie del terremoto di Loma Prieta. Il liquore scorreva, il denaro seguiva; Stefan e Melinda non dovendo più preoccuparsi per l’affitto, avevano comprato una lussuosa hot-tub  (vasca idromassaggio) nel paradiso suburbano di  Malin.

 I due astuti soci misero la fotografia di Stefan, con la  divisa degli Yankees, sulla parete del “Ferro di Cavallo e il vecchio alto e atletico super ragazzo intavolava lunghe conversazioni mentre, dietro il bancone,  versava doppie razioni agli avventori.

Il titolare si potrebbe paragonare  a Sam Malone, il grande lanciatore “barista” del film  “Cheers”, mentre . Stefan ricordava molto Archibald “Moonlight” Graham, il personaggio interpretato da Burt Lancaster nel film “L’uomo dei sogni”, quello che si lamentava del fatto che aveva giocato una sola partita nella Major Leagues.

Qualche saccente pieno di Anchor Steam potrebbe anche citare il film, esibendo un’orrenda imitazione di Lancaster sotto gli occhi roteanti di Stefan.

“Sai”, dice, “noi non riconosciamo i momenti più significativi della nostra vita mentre stanno accadendo. Allora ho pensato: Bene ci saranno altri giorni. Non mi rendevo conto che quello era l’unico giorno”.

Quando si sentiva filosofico, Stefan paragonava la sua situazione a quella di un ipotetico Luciano Pavarotti che aveva rovinato le sue corde vocali alla sua prima notte come tenore. “Ecco come la vedo io”. Ha detto in un articolo su MLB.com “Potrebbe sembrare egoista, ma è così che devo guardarlo”.

Se non stava guardando indietro, guardava di lato, mai avanti. Megan è nata nel 1993, ma la responsabilità non ha fermato Stefan dalla ricerca per la direzione della sua vita verso le stesse vecchie feste. Non è stato scioccante, allora, che Stef e Melinda si separassero quando la loro bambina aveva 7 anni.

Una notte, quando Megan aveva 12 anni, Stefan, come al solito, era stato al “Ferro di Cavallo”, cercando un solido calore dopo ore con innumerevoli “Lites Miller” e alcune tirate di cocaina. L’unica cosa che ricordava era che alle 10 di mattina era tornato a Marin, cercando casa sua. Non aveva nemmeno visto l’auto della polizia fino a quando si fu fermato.Ha seguito una luce rossa? Beh probabilmente. Questo è ciò che disse il poliziotto, comunque.

Era il terzo arresto per ubriachezza di Stefan.  Stava affrontando il carcere – condanna automatica in California – ma aveva un piano. Smise di bere e di prendere droghe, quella notte entrò negli Alcolisti Anonimi e ottenne di portare per sei mesi il braccialetto elettronico alla caviglia invece di sei mesi in cella.

Cadere? Certo. Rialzarsi?  Faresti meglio a crederci.

 Stefan aveva considerato di condividere i punti della lista di quel curriculum vitae vietato ai minori (R-rated) con il team Redwood in quella mattina di marzo, quattro anni dopo essere diventato sobrio. Aveva pensato di raccontare ai ragazzi  che stavano acquistando un allenatore che era risalito dalle profondità – un uomo che ha mantenuto  le promesse – rimanendo pulito e sereno e fortemente impegnato a raggiungere il suo potenziale. Aveva pensato di raccontare loro che si stava prendendo cura di se stesso al meglio, anche avendo avuto  nel 2007 l’intervento a cuore aperto per la sostituzione di una valvola aortica difettosa. “Non sono ancora un essere umano perfetto”, pensava di dire loro, “ma parlo un buon gioco”.

Aveva pensato di ricordare che era tornato a suonare  il pianoforte, scrivendo canzoni e cantando al Bazaar Cafè, vicino alla sua garconnière a San Francisco nelle notti “open”..

Non si preoccupò offrendo loro le copie di “The Gardner”, il CD completo che aveva inciso  (e tagliato) negli Fantasy Studios di Berkeley alla fine del 2008.

“Mi sentivo così fragile, la mia sofferenza non la posso raccontare, ma poi ho guardato avanti e finalmente mi sono rialzato in piedi diritto” – questa era la cosa che avrebbe colpito meglio  quelle menti malleabili rispetto alla banalità di qualsiasi discorso avrebbe potuto fare loro.

Ma aveva deciso che tutta quella roba avrebbe dovuto aspettare. Una stagione stava incominciando, lui era un allenatore a livello universitario, per la prima volta, e non aveva intenzione di porre troppi problemi su questi ragazzi troppo presto. Avevano partite da preparare, dovevano acquisire un concetto di squadra. Era tempo di prendere un programma perdente e trasformarlo in vincente. Velocemente; e lo ha fatto.

Verso Maggio i Giants erano allo spareggio per i play off avendo già vinto 14 partite in una stagione, in cui molti dei genitori e amministratori della squadra ne avevano previste cinque o sei. I giocatori avevano ascoltato Stefan, imparando dalla sua esperienza.

 Di tutte le cose che avrebbe potuto dire  loro, che aveva deciso di accantonare, per il loro bene, c’era una informazione che non poteva nascondere più a lungo. Il 13 Maggio 2009, prima di una partita in trasferta, Stefan convocò i ragazzi lungo la linea destra del campo. Tutti con un ginocchio a terra e il loro allenatore spiegò perché aveva perso alcuni allenamenti. Spiegò perché aveva perso 40 chili durante gli ultimi mesi. Spiegò perché la ghiandola nel suo fianco era così gonfia e infetta e perché, il giorno successivo, avrebbe dovuto lasciare la squadra.

A Stefan era stata diagnosticata una rara, ultra-aggressiva forma di cancro chiamato linfoma anaplastico a grandi cellule. Anche se la chemioterapia che avrebbe presto affrontatol’avesse messo KO, non vi era alcuna garanzia che il tumore non sarebbe tornato.

I ragazzi non piansero e Stefan li supplicò di non farlo. Stava per combattere anche questo e sarebbe tornato ad allenarli per la prossima stagione.

I Giants combatterono duro, quella notte, ma persero.

 Megan Wever è stata benedetta per il senso dell’umorismo preso dal padre. OK forse benedetta non è la parola giusta; oppressa, maledetta, diamine, anche condannata  avrebbe potuto essere più adatta. Stefan ha sempre avuto un talento per dire la cosa più strana, più scoraggiante, al momento giusto – cioè, sbagliato.

Se non lo si conosceva, si poteva pensare che stesse cercando una rissa, invece di voler essere solo provocatorio.

In un sondaggio del San Francisco Chronicle fatto tra persone prese a caso per strada, Stefan  diede un suo tocco personale alla risposta sulla domanda del giorno: “Per cosa si può usare un garage?”. La sua risposta fu: “Una prigione BDMS” (locali per erotismo estremo).

In un altro a lui e ad altre 10 persone è stato chiesto:”Qual è il tuo posto preferito per visitare il Sud della California?”, e lui impassibile “Il terminal di partenza a Los Angeles”.

Forse Megan non sapeva quanto lei assomigliasse a suo padre fino al pomeriggio quando lei entrò nella stanza d’ospedale subito dopo la diagnosi. Lui ripetè  le quattro parole strane che si erano attaccate al suo corpo e alla mente per sempre: linfoma anaplastico a grandi cellule. Le disse quello che gli avevano detto i medici: che questo tipo di tumore rappresenta solo l’1 o 2 per cento di tutti i casi di linfoma.

Decisa a fare tutto ciò che poteva per tirarlo su, lei lo guardò dritto negli occhi, l’uomo che aveva sempre conosciuto come il “papà per sempre” e disse, con il primo bit di positività che poteva radunare “Beh, almeno non è testicolare”

Lui rise come lei sapeva che avrebbe fatto, e rideva anche lei, e forse questo era sufficiente per riuscire a superare la giornata. Stefan sapeva che se Paul McCartney fosse stato vicino per scegliere una canzone, avrebbe detto: “Prendi una canzone triste e rendila migliore”. E qui sua figlia sedicenne stava facendo proprio questo.

Lei era li al Kaiser, quando la chemio ebbe inizio nel mese di Giugno. Stef le disse che si sentiva elettrizzato, come se fosse la notte prima di una partenza sul monte, fondamentale.

Presto avrebbe avuto la palla nel guanto di nuovo con la possibilità di ottenere una vittoria: tre mesi di CHOP, un cocktail di quattro farmaci progettati per liberare il corpo dal linfoma. Se questo funzionava, il passo successivo avrebbe avuto luogo presso la Stanford University  all’inizio di Settembre, dove a Stefan sarebbe stato applicato un catetere nel petto e iniziata la preparazione di una procedura che gli avrebbe prelevato il suo midollo osseo, ripulito e lasciato che le cellule staminali sane si moltiplicassero prima di rimettere il tutto nel suo organismo.

Se questo non avesse funzionato,nulla poteva farlo. Se invece avesse funzionato sarebbe tornato a casa libero dalla malattia, per le vacanze. Disse alla figlia che questa malattia non lo avrebbe ucciso e nemmeno spezzato. Diceva sul serio.

Una notte, alla fine di giugno, a casa dopo la chemio giornaliera e dopo una settimana dal suo primo taglio di capelli post diagnosi, Stefan era seduto al pianoforte nel suo salotto e stava suonando una ballata in tono minore. Senti Megan entrare nella stanza e sedersi dietro di lui. Lui sapeva che lei stava guardando come le sue agili ed eleganti dita trovavano le chiavi giuste, senza sforzo,  perfettamente a tempo. Una melodia cadenzata che superava la stanza e tutto il resto. Lei cominciò a piangere, ma cercò di trattenersi, fingendo distarnutire, aggrappandosi all’idea che potesse essere ancora la Megan a cui aveva insegnato ad essere pronti ad attaccare le sfide stoicamente, a muso duro che avrebbe gridato al mondo che non poteva perdere. Nessuna paura là fuori sul “monte”, o nella vita.Niente scuse. Niente lacrime, se si poteva farne a menoLei  non poteva. Si lasciò andare e lui smise di suonare sedendosi al suo fianco, tenendo la sua bambina che aveva solo tanto coraggio. La tirò vicino a sé.

“Megan, io sono il tuo papà per sempre”, le ha detto, “Niente potrà cambiare questo. Niente”

Megan rimase al suo fianco. Dorothy lo ha aiutato a navigare nel nuovo mondo delle specifiche alimentari e Melinda gli fornì passatempi e riscopri il piacere della compagnia.

La chemio ha funzionato, e nel settembre Stefan ha cominciato le iniezioni di un farmaco chiamato Neupogen che ha spinto le cellule staminali nel suo sangue per riprodursi. Poi un’altra vittoria. E ancora Megan era lì al suo fianco, questa volta a Stanford nel mese di ottobre, quando il trapianto di midollo osseo è stato considerato un successo è stato mandato a casa per un mese senza quasi nessun sistema immunitario al lavoro, indossando una maschera che lo faceva assomigliare a Darth Vader (personaggio di Star Wars).

Il 5 novembre 2009, il dottore di Stefan gli ha dato (e a Megan ovviamente) la buona notizia: non c’era più il cancro nel suo corpo. Lui era a casa felice, già pensando alla formazione di partenza per la stagione successiva a Redwood. Aveva ripreso più di 9 chili. Megan si era trasferita da Redwood alla Tamiscal High School, dove stava lavorando su un programma di studi indipendente. Curriculum che le ha permesso di fare la badante di suo padre  24 ore al giorno, ottenendo una media di punteggio-voti del 4.0 (GPA 4.0 la più alta)

Tre mesi dopo a San Valentino, padre e figlia erano in macchina, rotolando giù per Geary Street verso casa di Dorothy per la cena. Il cellulare di Stefan squillò e lui rispose sollevando il telefono. Megan si domandò perché non avesse girato la chiamata agli altoparlanti della macchina come al solito, ma non glielochiese. Lui disse che andava tutto bene.

Stefan era tranquillo a cena fino a quando non diede la notizia a Megan, Melinda e Dorothy. Il cancro era tornato. Le donne piangevano, ma prima di tornare a casa giurò loro che sarebbe tornato OK. Doveva passare anche questo. Il suo medico aveva parlato di un farmaco chiamato SGN-35, non ancora approvato dalla FDA, che lui avrebbe potuto ricevere, invece della chemio. Il suo oncologo disse che aveva dato buoni risultati fino ad ora. Stefan disse che non vedeva l’ora di dare un colpo alla malattia.

Cinque giorni dopo, Stefan fu scelto per ricevere l’ SGN-35 a Stanford come parte di una sperimentazione clinica. Avrebbe dovuto prendere una pillola ogni settimana per tre settimane, sospendere la cura per un paio di settimane, e riprendere la pillola per tre settimane sottoponendosi alle radiazioni. Poi avrebbe subito un altro trapianto di midollo prelevato da una fonte esterna. Sua sorella gemella Kirsten aveva una perfetta corrispondenza.

“Stiamo andando negli innings supplementari” Stef scrisse in una mail ad un amico, “e sono sempre stato abbastanza bravo in queste situazioni”.

Ad aprile il cancro era sparito di nuovo. L’SGN-35 era stato così efficace che non ci fu bisogno del trapianto di midollo osseo. Fu dura per lui alzarsi dal letto la mattina, ma partecipò agli allenamenti e alle partite. Arrivava in ritardo al campo, ma i giocatori erano sempre puntuali, i Giants stavano vincendo e stavano ritornando a giocarsi i play off.

Nel buio delle prime ore del mattino del 28 aprile Stefan si svegliò e si vestì, pronto ad andare al campo. Entrò nella stanza di Megan e le disse che stava andando all’allenamento. Guardò l’orologio. Erano le 3.oo. Prima che Megan potesse chiedergli di cosa diavolo stesse parlando, … lo sentì. Il suo corpo tornato ai 108 era caduto a terra come una sequoia tagliata. Era accanto al suo letto, respirava a fatica  e farfugliava. Non riusciva ad alzarsi, e se  tentava, scivolava ancora giù. Megannon aveva nessuna possibilità di sollevarlo, ma le venne in mente una cosa che aveva letto durante i giorni di convalescenza dal cancro: che una temperatura superiore ai 37,2, o qualsiasi altra lieve anomalia poteva significare la morte. Lei cercò di convincerlo a non tentare di alzarsi perché avrebbe potuto battere la testa.

Chiamò il 911 mentre lui sputava insulti incoerenti e richieste assurde. Megan mantenne la calma e spiegò al telefono, con una voce forte e chiara quello che stava accadendo. Arrivarono sei paramedici che misero Stefan su una sedia speciale. Megan chiamò Melinda  e insieme salirono in macchina e seguirono l’ambulanza fino al Kaiser dove Stefan fu portato in terapia intensiva, immobile, con il viso inespressivo.

E a malapena vivo.

 Tu ami San Francisco perché la senti tua.

Quando ti alzi alle 6 all’interno  della tua casa di Richmond e non puoi vedere l’auto parcheggiata dall’altra parte della strada, ti senti come se una onnicomprensiva nebbia sia stata messa lì per racchiuderti in un campo di forza impenetrabile. Si può discutere sui termini di questa metropoli folle, di colline e foreste e la baia sull’oceano e le case accatastate una sopra l’altra, è l’unico caotico sproloquio che abbiate mai visto che abbia un senso. Ci si può prendere cura delle necessità della giornata, con ogni passo mirato a dimostrare che si sa cosa si vuol fare. E ci credo: si sta di nuovo camminando a grandi passi.

Sapevi che dovevi svegliarti quella sera di maggio nella stanza senza vista, e avevi ragione.

E ora, un anno più tardi sei ancora qui. L’intervento chirurgico di sostituzione alla valvola dopo l’ictus, che tutti erano convinti ti uccidesse, quello che ha messo tuo padre su un aereo dalla Germania per salutarti, convinto che fosse giusto dirti addio, è durato nove ore. Megan e Melinda ti stavano guardando, il giorno dopo,  quando hai aperto gli occhi e ti hanno sentito dire qualcosa di offensivo, hanno capito che non c’erano danni al cervello. Eri ritornato.

Forse era solo un altro miracolo, sei sopravvissuto a due round con il cancro e ora l’ictus. Paul McCartney avrebbe cantato proprio lì, al piano della terapia intensiva, che nella tua ora di buio, c’era ancora una luce che brillava su di te. Avrebbe potuto aggiungere una strofa su quanto lavoro avevi ancora di fronte a te. “Nessun problema” tu gli avresti detto. “Le cose buone sono più avanti”.

Come questo: due giorni prima che tu fossi spostato in una struttura di riabilitazione a Vallejo per ritrovare la forza nella parte sinistra, riqualificare il tono muscolare e recuperare la tua capacità di scrivere, parlare. I tuoi Redwood Giants hanno battuto i Drake: 7 – 3 vincendo il Marin County Athletic League Championship con la tua casacca appesa fuori dal dugout. I ragazzi sono venuti al tuo capezzale al Kaiser quel week end, ti hanno portato lostendardo, appeso accanto al banner dei Red Sox, che Megan aveva rubacchiato in un bar vicino.

E questo: ai primi di giugno Megan si è diplomaya alle scuole superiori. Si era iscritta alla University of Oregon, dove sembrava determinata a frequentare la facoltà di scienze politiche e sociologia. Ha detto che voleva entrare nelle forze dell’ordine e salire ai più alti livelli dell’antiterrorismo. Tu non eri in grado di discutere.

Entro la fine di giugno sei tornato a casa, entro agosto stavi camminando di nuovo e da novembre potevi tornare a guidare, anche se hai detto che hai fatto in modo che i tuoi amicisi allontanassero prima dalla strada

Il “Ferro di Cavallo” aveva continuato a prosperare nonostante la tua assenza.

Non potevi più suonare il pianoforte, ma potevi ancora cantare, così hai scritto più canzoni e hai convinto i tuoi amici del Bazar Café a venire a cantareinsieme.

Hai dovuto abbandonare Redwood perché non potevi più giocare a baseball, non riuscivi a vedere la palla fino a quando non era a 3 metri di fronte a te; non potevi lanciare nel batting practice perché perdevi l’equilibrio e non potevi battere col fungo. Ti sei raccomandato che il giovane che ti sostituiva ad interim, Jeff Packman, avesse il lavoro a tempo pieno da subito, e l’amministrazione ha onorato il tuo desiderio. Il padre di uno dei tuoi giocatori ti ha scritto una lettera “hai salvato il programma”, ti ha detto. Tu hai conservato la lettera.

Ma non potevi rinunciare al gioco, non dopo la gioia che hai provato quando sei tornato a vederlo dopo tutti quegli anni perduti.

Sapevi che potevi ancora allenare e insegnare, ed è quello che stai facendo. Sei tornato a Redwood , facendo volontariato con le matricole, cercando come un matto di tenere a freno questi ormoni scatenati – per insegnare a questi ragazzi la parte mentale del gioco in anticipo invece che in ritardo, come hai fatto tu.

Beh, non starai a Redwood per molto tempo ancora. Non questa mattina.

C’è traffico sul Golden Gate Bridge e una nebbia così fitta che non puoi vedere, i promontori, gli Headlands, finché non ci sei quasi sopra. Ma come sempre, una volta che la strada 101 attraversa il Tunnel Waldo, quello con l’arcobaleno dipinto sopra, la nebbia scompare e sarai accolto dalla luce del sole prepotente di Marin. Mancano solo un paio di miglia.

Parcheggi e la testa è già al campo sotto un cielo scintillante. Il progetto di oggi è un tozzo mancino di nome Robbie. E’ alto forse 1,80, un po’ distratto, ma ha un grande braccio. E’ per questo che lo hai portato fuori dal campo a destra e lo hai messo sul monte.

Da lontano hai visto il problema. Robbie lancia forte, ha grandi possibilità per un ragazzo della sua età, ma gli piace lavorare a piccoli morsi, Gli piace usare trucchi e modi passivi per non essere battuto, invece di scavare dentro, raccogliersi  indietro è lanciare forte con tutto ciò che ha ogni volta, sapendo che lui è meglio di quello sciocco con la mazza in mano, sapendo che quello che possiede è abbastanza buono. Ora siete di fronte e vi guardate in faccia per la prima volta;  a lui non sembra fare molto piacere. Stai testando la sua virilità. Gli stai dicendo che un lanciatore con una fastball di potenza che non ha pietre da scagliare là in mezzo è un corpo sprecato su di un campo da baseball.

Stai dicendo che, solo per un attimo, ti piacerebbe vederlo dimenticare tutto quello che gli è stato insegnato sulla meccanica, la sequenza del passo, la posizione o il conteggio: “basta impugnarla e lanciare”, gli dici. “Tutto quello che devi sapere è che quando un ragazzo arriva in prima base, devi volere che giri a destra e non a sinistra”.

Robbie ci pensa per un secondo e ride. Scuoti la testa verso di lui, strizzi gli occhi alla luce del sole accecante e lo gdi. Lui annuisce di nuovo. Si gira, guarda il catcher, e lascia andare la palla.

La foto di Stefan Wever è tratta da internet

Tradotto da Gandalf il grigio